Quale inclusione? Riflessioni critiche sui bisogni educativi speciali/ Il dibattito sui BES
Mi
permetto di proporre alcune riflessioni in riferimento al dibattito in
corso nel mondo della scuola e degli ambienti pedagogici sulla questione
dei cosiddetti ‘bisogni educativi speciali’ che ha trovato una sua
esplicita formalizzazione nei documenti del Miur di dicembre 2012 e
marzo 2013. Considero la questione estremamente delicata e complessa ma
anche importante poiché è il riflesso di una concezione della scuola e
di una visione della gestione delle differenze in termini di
apprendimento, crescita individuale e collettiva. In sostanza ne va del
modello di società che vogliamo costruire formando le future generazioni
e quindi della nostra idea di democrazia. Faccio rapidamente alcune
considerazioni e pongo alcuni quesiti sui quali invito il mondo della
scuola ma anche dell’educazione in generale a riflettere seriamente:
I rischi della logica differenzialistica e delle stigmatizzazioni sofisticate
Ricordo che nel 1977 con la legge sull’integrazione scolastica degli
alunni disabili nella scuola di tutti si superava , almeno così si
pensava allora, la logica differenzialistica delle classi differenziali ,
delle scuole speciali e delle sezioni ghetto. Si affermava il principio
dell’eguaglianza delle opportunità nell’accesso all’istruzione e
all’educazione predisponendo strumenti e risorse (vedi insegnante di
sostegno) per favorire lo sviluppo delle potenzialità di tutti gli
alunni tramite una attività pedagogica accogliente, in grado di
promuovere l’individualizzazione dei percorsi di apprendimento e
l’attività di gruppo (produttrice di esperienze di socialità). Tutto
andava quindi nella direzione di lottare contro l’esclusione, la
marginalizzazione e la stigmatizzazione/inferiorizzazione dell’alunno
disabile. Negli anni si sono sviluppate esperienze didattiche e
pedagogiche ricche di innovazione ma sono anche emerse molti limiti e
tante criticità. Con una direttiva del 2010 il ministero pone la
questione degli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento
(dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia); si promuovono corsi
di formazione per insegnanti (curriculari e di sostegno). Comincia a
porsi una domanda: se è giusto essere attenti al fenomeno dei DSA non
v’è il rischio di una identificazione rapida tra difficoltà di
apprendimento e disturbi specifici? Non v’è anche il rischio di
accentuare lo sguardo clinico-diagnostico a scapito dello sguardo
pedagogico che dovrebbe essere quello dell’insegnante? Abbiamo anche
visto gli alunni con ADHD (sindrome da deficit di attenzione e
ipertattività); anche qui una nozione e categoria ambigua e molto
discussa: cosa vuol dire? Chi sono? Quale attenzione pedagogica da parte
dell’insegnante (una volta lo psicopedagogista francese Henri Wallon
parlava di ‘bambino turbolento’; si capisce che dire turbolento e dire
iperattivo non è la stessa cosa, non è lo stesso sguardo; il primo
colloca la questione nell’ambito educativo, il secondo in quello
clinico-sintomatologico). Adesso abbiamo i BES: chi sono? In parte si
riprende alcune categorie precedenti e si aggiunge: gli alunni con
difficoltà di apprendimento (quale alunno non presenta difficoltà di
apprendimento?), gli alunni con disagio psico-sociale (la povertà
sociale è un problema?), quelli con difficoltà linguistico culturali
(l’essere figlio/a d’immigrati è un problema?), gli alunni con un
‘funzionamento intellettivo limite’ (cosa vuol dire esattamente?).
Insomma una ulteriore categoria insieme ambigua, generica e anche
funzionale al paradigma clinico-diagnostico-terapeutico che sta
colonizzando culturalmente la scuola e la società. Faccio notare che le
categorie usate non sono per niente neutrali e che mentre la logica
differenzialistica tende a produrre e riprodurre diseguaglianze
(stigmatizzazioni sofisticate) il riconoscimento delle differenze passa
tramite un’azione pedagogica basata sul principio di eguaglianza
nell’accesso ai saperi e alle conoscenze. Insomma la logica
differenzialistica delle categorizzazioni continue non ha nulla a che
fare con il riconoscimento delle differenze.
Quale inclusione?
Anche sulla questione dell’inclusione occorre confrontarsi e chiarire
meglio di cosa stiamo parlando. Per anni si è parlato di integrazione,
in particolare in riferimento all’integrazione scolastica e sociale
degli alunni con disabilità (distinguendo la disabilità-prodotta da un
deficit sensoriale, motorio, intellettivo dall’handicap prodotto o
conseguenza socio-culturale, ostacoli generati dalla società
nell’interazione con il soggetto con disabilità); si diceva che fosse
importante creare delle opportunità e delle situazioni educative e
formative in grado di rimuovere barriere e ostacoli. Di modificare
tramite la mediazione dell’azione educativa pregiudizi e situazioni
handicappanti produttrici di esclusione, autoesclusione e
stigmatizzazione/interiorizzazione. Poi da alcuni anni si è cominciato a
parlare d’inclusione, precisando che si voleva sottolineare che il
cambiamento non poteva essere a senso unico ma reciproco (soggetto e
ambiente). Troviamo queste considerazioni già nei lavori dello
psicopedagogista sovietico Lev Vygotskij che parla di mediazioni: quello
che oggi vengono definite con le espressioni strumenti compensativi e
dispensativi (uso di tecniche, ausili e di accompagnamento e supporti).
Produrre esperienze di apprendimento mediato per favorire lo sviluppo
delle potenzialità di tutti gli alunni, appunto in una prospettiva
d’integrazione e/o d’inclusione. Ma sorge un dubbio: se il concetto
d’inclusione è strettamente connesso agli indirizzi proposti sui
cosiddetti Bes si muove nella direzione del differenzialismo, allora
cosa vuol dire includere? Un concetto chiave rimane quello di
adattamento funzionale. Quindi si tratta di adattare, per il bene
dell’alunno ‘Bes’ , di ‘normalizzare’, di ‘curare’. di ‘riparare’. Ma a
questo punto non si rischia di riprodurre le diseguaglianze che si
dichiara di volere combattere? Non si rischia di fornire una
giustificazione ‘scientifica’ all’esistenza, purtroppo reale, delle
sezioni ghetto nelle scuole, e, quindi, di riprodurre la logica delle
classi differenziali? Nei documenti del ministero si parla della
valutazione dell’inclusività delle scuole: ma chi si occuperà di questa
valutazione? Quale formazione e competenze avranno i valutatori? Quali
criteri di valutazione saranno utilizzati? Non vorrei che i criteri
(diffusi nei sistemi di valutazione PISA) usati (successo scolastico,
abbandono e dispersione scolastica, autofinanziamento, progettualità
approvate e realizzate) finissero per penalizzare ulteriormente le
scuole delle periferie, le scuole povere dei quartieri emarginati, le
scuole collocate nelle zone ad alta presenza di immigrati… Vorrebbe dire
riprodurre e accentuare le diseguaglianze e essere in contraddizione
con il detto costituzionale della Repubblica italiana. Sono quesiti
posti sia sul piano della riflessione filosofica, pedagogica e
sociologica da eminenti studiosi e pensatori come il tedesco Jurgen
Habermas (l’inclusione dell’altro) e il francese Charles Gardou (la
società inclusiva). Inoltre si pone anche la questione della relazione e
del tipo di collaborazione tra insegnante curriculare e insegnante di
sostegno, ma anche quella del rapporto tra scuola, famiglie e
territorio: è quello che nei loro lavori recenti dei colleghi belgi come
J.P.Pourtois, H.Desmett e B.Humbeeck chiamano ‘processi co-educativi’:
come si costruisce l’alleanza co-educativa tra i diversi attori della
comunità? Come si può attivare e realizzare insieme dei processi di
emancipazione che garantiscono la giustizia nei processi di
apprendimento?
Didattica o didatticismo? La marginalizzazione della pedagogia
La gestione del gruppo classe e l’organizzazione degli apprendimenti
sono due aspetti fondamentali dell’attività docente. La tendenza va
sempre di più (lo si vede nella formazione stessa del personale docente)
nella direzione delle procedure didattiche, della tecnologia didattica,
dell’uso degli strumenti; si sostituisce la didattica come processo
vivo (che implica la relazione complessa tra docente, alunni, metodi ,
strumenti, comunità scolastica) con il didatticismo inteso come
procedura. Interessante notare che la figura dell’alunno come soggetto
significante del processo d’insegnamento/apprendimento è assente. Se è
presente lo è solo come fonte di problema. Il rischio è di vedere
l’insegnante diventare un operatore della diagnosi e della procedura
tecnica per valutare la performance dell’alunno in termini stretti
d’istruzione (come se istruzione e educazione non fossero interconnesse
in modo vivo nell’esperienza in classe). La pedagogia (quindi la
formazione pedagogica dell’insegnante che dovrebbe andare a caccia di
risorse, capacità, potenzialità e non di ‘comportamenti problema’) viene
marginalizzata nella cultura scolastica e colonizzata dallo sguardo di
una certa psicologia clinica. Non a caso i documenti ministeriali non
fanno praticamente mai riferimento alla lunga e ricca esperienza delle
pedagogie attive e dell’educazione nuova; ancora meno di quelle prodotte
dalla pedagogia speciale.
Quale modello organizzativo, quale politica? Logica burocratica o democratica?
Si parla di docenti esperti e preparati sui ‘BES’ , si parla di
Centri territoriali per l’inclusione: ma cosa vuol dire in modo preciso?
Chi saranno questi docenti esperti dei BES ? Quale formazione avranno?
Quali compiti e competenze? Che fine faranno gli insegnanti
specializzati o di sostegno? Vediamo in tutto questo una risposta
tecnocratica-burocratica ad una questione di ordine culturale,
pedagogica e sociale; di nuovo vediamo una scuola e un corpo docente
deprivato del proprio protagonismo, della possibilità di partecipare
all’analisi e anche all’elaborazione di proposte concrete per favorire
l’effettiva eguaglianza delle opportunità per tutti gli alunni
nell’accesso all’istruzione e all’educazione. V’è bisogno del contributo
degli insegnanti che ogni giorno attivano delle esperienze pedagogiche e
didattiche nelle loro classi, che ogni giorno affrontano la complessità
e le difficoltà del mestiere dell’insegnante in una società sempre più
atomizzata e individualistica. Gli alunni portano a scuola le
contraddizioni che vivono nelle loro famiglia e che produce una società
che fa di ognuno un consumatore-spettatore e non un soggetto
responsabile consapevole del legame tra individualità e comunità, tra
diritti e doveri, tra desideri personali e bene comune. Gli insegnanti
vanno coinvolti non come destinatari di indagini predisposte da pool di
esperti, non come mere esecutori di direttive ministeriali o di tecniche
specializzate ma come attori/autori in grado di produrre senso e di
fornire, tramite la loro pratica, proposte e indicazioni per un
rinnovamento della nostra scuola repubblicana.
Mi fermo qui. Sono solo alcuni spunti di riflessione; sono convinto
che occorre rimettere al centro l’azione pedagogica e promuovere un
autentico confronto dando voce agli operatori della scuola, agli
insegnanti, agli educatori, ma anche agli alunni e ai genitori che
spesso si trovano a dovere fare delle scelte senza capire di cosa si sta
parlando. Ne va del futuro dei nostri figli, della scuola della
Repubblica e anche del futuro della democrazia in questo paese.
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